di Volodymyr Zelensky
(di seguito l’intervento del presidente ucraino Volodymyr Zelennsky al Congresso degli Stati Uniti d’America in occasione della sua visita a Washington il 21 dicembre scorso)
Grazie di cuore. Grazie mille, grazie a voi. È troppo per me, tutto questo per il nostro grande popolo, grazie di cuore.
Cari americani, tutti coloro che apprezzano la libertà e la giustizia, che le hanno a cuore come noi ucraini nelle nostre città, in ogni nostra famiglia spero che le mie parole di rispetto e gratitudine risuonino in ogni cuore americano.
Signora vicepresidente, la ringrazio per il suo impegno a favore dell’Ucraina. Signora presidente, lei ha coraggiosamente visitato l’Ucraina durante la guerra. La ringrazio molto. È un grande onore. Grazie. Sono molto onorato di essere qui. Cari membri del Congresso, rappresentanti di entrambi i partiti che hanno visitato Kyiv, stimati deputati e senatori di entrambi i partiti che visiteranno l’Ucraina, ne sono certo, in futuro; cari rappresentanti della diaspora, presenti in quest’aula e sparsi in tutto il paese; cari giornalisti, è un grande onore per me essere al Congresso degli Stati Uniti e parlare a voi e a tutti gli americani.
Contro tutte le previsioni e gli scenari funesti, l’Ucraina non è caduta. L’Ucraina è viva e vegeta. Grazie. E questo mi dà una buona ragione per condividere con voi la nostra prima vittoria comune: abbiamo sconfitto la Russia nella battaglia per i cuori e le menti del mondo. Non abbiamo paura, né dovrebbe averla nessuno al mondo. Gli ucraini hanno ottenuto questa vittoria, che ci dà il coraggio di ispirare il mondo intero.
Gli americani hanno ottenuto questa vittoria, ed è per questo che siete riusciti a unire la comunità internazionale per proteggere la libertà e il diritto internazionale. Gli europei hanno ottenuto questa vittoria, ed è per questo che l’Europa è ora più forte e più indipendente che mai. La tirannia russa ha perso il controllo su di noi. E non influenzerà mai più le nostre menti. Tuttavia, dobbiamo fare tutto il necessario per garantire che anche i paesi del Sud globale ottengano questa vittoria. So un’altra cosa, a mio avviso molto importante: i russi avranno la possibilità di essere liberi solo quando sconfiggeranno il Cremlino nella loro mente. Tuttavia, la battaglia continua e dobbiamo sconfiggere il Cremlino sul campo di battaglia, sì.
Questa battaglia non è solo per il territorio, per questa o un’altra parte d’Europa. La battaglia non è solo per la vita, la libertà e la sicurezza degli ucraini odi qualsiasi altra nazione che la Russia tenta di conquistare. Questa battaglia definirà in quale mondo vivranno i nostri figli e nipoti, e poi i loro figli e nipoti.
La storia di questo paese è una delle più importanti del mondo, e definirà se ci sarà una democrazia per gli ucraini e per gli americani – per tutti. Questa battaglia non può essere congelata o rimandata. Non può essere ignorata, sperando che l’oceano o qualcos’altro fornisca una protezione. Dagli Stati Uniti alla Cina, dall’Europa all’America latina, dall’Africa all’Australia, il mondo è troppo interconnesso e interdipendente per permettere a qualcuno di rimanere in disparte e allo stesso tempo di sentirsi al sicuro quando questa battaglia continua.
Le nostre due nazioni sono alleate in questa battaglia. E il prossimo anno sarà un punto di svolta, ne sono certo, il momento in cui il coraggio ucraino e la determinazione americana dovranno garantire il futuro della nostra libertà comune, la libertà delle persone che difendono i propri valori.
Ieri prima di venire qui a Washington ero in prima linea nella nostra Bakhmut. Nella nostra roccaforte nell’est dell’Ucraina, nel Donbas. I militari e i mercenari russi stanno conquistando Bakhmut senza sosta da maggio. L’hanno attaccata giorno e notte, ma Bakhmut resiste.
L’anno scorso, 70.000 persone vivevano a Bakhmut, in questa città, e ora rimangono solo pochi civili. Ogni centimetro di quella terra è intriso di sangue; i cannoni suonano ogni ora. Le trincee nel Donbas cambiano di mano più volte al giorno in combattimenti feroci e persino in scontri a mani nude. Ma il Donbas ucraino resiste.
I russi usano tutto, tutto quello che hanno contro Bakhmut e altre nostre belle città. Gli occupanti hanno un vantaggio significativo nell’artiglieria. Hanno un vantaggio in munizioni. Hanno molti più missili e aerei di quanti ne abbiamo mai avuti noi. Ma le nostre forze di difesa resistono. E siamo tutti orgogliosi di loro.
La tattica dei russi è primitiva. Bruciano e distruggono tutto ciò che vedono. Hanno mandato dei delinquenti in prima linea. Hanno mandato dei detenuti in guerra. Hanno gettato tutto contro di noi, come l’altra tirannia, che si trova nella battaglia del Bulge, ha lanciato tutto ciò che aveva contro il mondo libero. E proprio come i coraggiosi soldati americani che hanno tenuto il fronte e hanno combattuto le forze di Hitler durante il Natale del 1944, i coraggiosi soldati ucraini stanno facendo lo stesso con le forze di Putin in questo Natale.
L’Ucraina mantiene le sue linee e non si arrenderà mai. Ecco, quindi, la linea del fronte, la tirannia che non manca di crudeltà contro le vite di persone libere – e il vostro sostegno è fondamentale, non solo per resistere a questa lotta, ma per arrivare al punto di svolta per vincere sul campo di battaglia. Abbiamo l’artiglieria, sì. Grazie. Ce l’abbiamo. È sufficiente? Onestamente, non proprio. Per far sì che Bakhmut non sia solo una roccaforte che trattiene l’esercito russo, ma che l’esercito russo si ritiri completamente, sono necessari più cannoni e granate. Se così fosse, proprio come la battaglia di Saratoga, la lotta per Bakhmut cambierà la traiettoria della nostra guerra per l’indipendenza e la libertà. Se i vostri patrioti fermeranno il terrore russo contro le nostre città, i patrioti ucraini potranno lavorare fino in fondo per difendere la nostra libertà. Quando la Russia non riesce a raggiungere le nostre città con l’artiglieria, cerca di distruggerle con attacchi missilistici. Inoltre, la Russia ha trovato un alleato in questa politica genocida: l’Iran. I droni letali iraniani inviati in Russia a centinaia sono diventati una minaccia per le nostre infrastrutture. È così che un terrorista ha trovato l’altro. È solo questione di tempo: colpiranno altri vostri alleati se non li fermiamo subito. Dobbiamo farlo. Credo che non ci debbano essere tabù tra di noi nella nostra alleanza. L’Ucraina non ha mai chiesto ai soldati americani di combattere sul nostro territorio al posto nostro. Vi assicuro che i soldati ucraini sono perfettamente in grado di manovrare da soli i carri armati e gli aerei americani.
Anche l’assistenza finanziaria è di fondamentale importanza e vorrei ringraziarvi, ringraziarvi molto, ringraziarvi sia per i pacchetti finanziari che ci avete già fornito sia per quelli che sarete disposti a decidere. Il vostro denaro non è beneficenza. È un investimento nella sicurezza globale e nella democrazia che gestiamo nel modo più responsabile.
La Russia potrebbe fermare la sua aggressione, davvero, se lo volesse, ma voi potete accelerare la nostra vittoria. Lo so. E questo dimostrerà a qualsiasi potenziale aggressore che nessuno può riuscire a infrangere i confini nazionali, nessuno può commettere atrocità e regnare sulle persone contro la loro volontà. Sarebbe ingenuo aspettare passi verso la pace dalla Russia, che si diverte ad essere uno stato terrorista. I russi sono ancora avvelenati dal Cremlino.
Il ripristino dell’ordine legale internazionale è il nostro compito comune. Abbiamo bisogno di pace, sì. L’Ucraina ha già offerto delle proposte, che ho appena discusso con il presidente Biden, la nostra formula di pace, 10 punti che dovrebbero e devono essere attuati per la nostra sicurezza comune, garantita per i decenni a venire e per il vertice che si può tenere.
Sono lieto di dire che oggi il presidente Biden ha appoggiato la nostra iniziativa di pace. Ognuno di voi, signore e signori, può contribuire all’attuazione per garantire che la leadership americana rimanga solida, bicamerale e bipartisan. Grazie.
Potete rafforzare le sanzioni per far sentire alla Russia quanto sia davvero rovinosa la sua aggressione. È davvero in vostro potere aiutarci a consegnare alla giustizia tutti coloro che hanno iniziato questa guerra criminale e non provocata. Facciamolo. Lasciate che i terroristi, lasciate che lo stato terrorista sia ritenuto responsabile del suo terrore e della sua aggressione e che risarcisca tutte le perdite causate da questa guerra. Che il mondo veda che gli Stati Uniti sono qui.
Signore e signori, tra due giorni festeggeremo il Natale. Forse a lume di candela. Non perché sia più romantico, no, ma perché non ci sarà elettricità. Milioni di persone non avranno né riscaldamento né acqua corrente. Tutto questo è il risultato degli attacchi russi con missili e droni alle nostre infrastrutture energetiche. Ma noi non ci lamentiamo. Non giudichiamo e non ci paragoniamo a chi ha una vita più facile. Il vostro benessere è il prodotto della vostra sicurezza nazionale, il risultato della vostra lotta per l’indipendenza e delle vostre numerose vittorie. Anche noi ucraini affronteremo la nostra guerra per l’indipendenza e la libertà con dignità e successo.
Festeggeremo il Natale. Festeggeremo il Natale e, anche se non ci sarà elettricità, la luce della fiducia in noi stessi non si spegnerà. Se i missili russi ci attaccheranno, faremo del nostro meglio per proteggerci. Se ci attaccheranno con i droni iraniani e la nostra gente dovrà andare nei rifugi antiatomici la vigilia di Natale, gli ucraini si siederanno comunque a tavola per le feste e si rallegreranno a vicenda. E non dobbiamo conoscere i desideri di tutti, perché sappiamo che tutti noi, milioni di ucraini, desideriamo la stessa cosa: la vittoria. Solo la vittoria. Insieme a voi abbiamo già costruito un`Ucraina forte, con un popolo forte, un esercito forte, istituzioni forti. Abbiamo sviluppato insieme a voi forti garanzie di sicurezza per il nostro paese e per l`intera Europa e il mondo. E sempre insieme a voi, metteremo al riparo chiunque voglia sfidare la libertà.
Questa sarà la base per proteggere la democrazia in Europa e nel mondo. Ora, in questo speciale periodo natalizio, voglio ringraziare tutti voi. Ringrazio tutte le famiglie americane che hanno a cuore il calore della propria casa e che desiderano lo stesso calore per gli altri. Ringrazio il presidente Biden ed entrambi i partiti, al Senato e alla Camera, per la vostra preziosa assistenza. Ringrazio le vostre città e i vostri cittadini che hanno sostenuto l’Ucraina quest’anno, che hanno ospitato i nostri ucraini, la nostra gente, che hanno sventolato le nostre bandiere nazionali, che hanno fatto di tutto per aiutarci. Grazie a tutti voi, da tutti coloro che ora sono in prima linea, da tutti coloro che attendono la vittoria. Oggi, stando qui, ricordo le guerre del presidente Franklin Delano Roosevelt, che penso siano così adatte a questo momento. Il popolo americano, con la sua giusta forza, vincerà fino alla vittoria assoluta. Anche il popolo ucraino vincerà, assolutamente.
So che tutto dipende da noi, dalle forze armate ucraine, ma molto dipende dal mondo. Molto nel mondo dipende da voi. Quando ieri ero a Bakhmut, i nostri eroi mi hanno dato la bandiera, la bandiera di battaglia, la bandiera di coloro che difendono l’Ucraina, l’Europa e il mondo a costo della loro vita. Mi hanno chiesto di portare questa bandiera a voi, al Congresso degli Stati Uniti, ai membri della Camera dei Rappresentanti e ai senatori le cui decisioni possono salvare milioni di persone. Quindi, lasciate che queste decisioni vengano prese. Lasciate che questa bandiera rimanga con voi, signore e signori. Questa bandiera è il simbolo della nostra vittoria in questa guerra. Siamo in piedi, combattiamo e vinceremo perché siamo uniti: l’Ucraina, l’America e tutto il mondo libero.
Solo una cosa, se posso, l’ultima grazie mille, che Dio protegga le nostre coraggiose truppe e i nostri cittadini, che Dio benedica per sempre gli Stati Uniti d’America. Buon Natale e un felice e vittorioso anno nuovo. Slava Ukraini.
di Maurizio Turco* e Irene Testa**
Caro amico, cara amica,
sono passati sessant’anni da quando nel 1963 nacque quel partito che Pier Paolo Pasolini ebbe modo di definire del radicalesimo pannelliano. Quel Partito che continua ad essere una alterità nel panorama politico, quel Partito nonostante non possa essere per statuto competitivo sul piano elettorale, continua ad essere oggetto di censura da parte del regime, quel Partito è vivo e si appresta a vivere una nuova stagione di lotte.
Quale Partito? Per restare agli ultimi fatti: decine di manifestazioni davanti all’ambasciata iraniana, un’iniziativa nonviolenta di sciopero della fame, una marcia, un’audizione in Commissione esteri in Senato promossa dalla Senatrice Stefania Craxi e un incontro alla Farnesina. Dopo tutto questo l’anno nuovo del Partito Radicale sarà segnato della prosecuzione della mobilitazione a fianco dei giovani iraniani che con lo slogan donna vita libertà chiedono libertà, democrazia e laicità.
Abbiamo sposato senza indugio alcuno le rivendicazioni che vengono dalle lotte animate in Iran da giovani donne, lotte nonviolente e femministe per i più elementari diritti di libertà. Per esserci messi al fianco di queste lotte, e approfittando dal fatto che durante la marcia promossa dal Partito, una persona a noi sconosciuta ha inalberato un cartello con una leader iraniana a testa in giù, il Partito Radicale è stato indicato come il promotore dell’azione ed è entrato nel collimatore di una organizzazione che sino al 2012 era nella lista delle organizzazioni terroristiche, con la conseguenza che la tesoriera Irene Testa ha subito minacce.
Ma noi andiamo avanti al fianco dei giovani iraniani e rispondiamo agli iscritti al Partito. Degli altri, noi sappiamo ma non abbiamo le prove. Intanto continuano a risuonare le parole di Majidreza Rahnavard di 23 anni che prima di essere impiccato detta le sue ultime volontà: “Non piangete, non leggete il Corano, non pregate. Siate gioiosi. Suonate musica allegra”.
Questo ci impone – dobbiamo, vogliamo! – nonostante i limiti oggettivi nei quali il Partito Radicale si trova ad operare, di continuare e sostenere con sempre più forza, la lotta dei giovani iraniani. Convinti che il rovesciamento della teocrazia iraniana può essere d’esempio e d’aiuto alla liberazione dei popoli dell’area, soggiogati da regimi autoritari e teocratici e che per aiutare questo processo l’Italia dovrebbe essere in prima fila come promotore – in ambito europeo o di G7 – di una forte e vera iniziativa politica a supporto di quei ragazzi (il 70% della popolazione iraniana ha meno di 35 anni) che tutti i giorni rischiano la vita per liberarsi dalla repressione degli Ajatollah.
Cominciamo da subito! A partire dal 1 gennaio, la domenica alle ore 12,30 Radio radicale ospita la rubrica curata dal Partito radicale: informazione donna vita libertà – rassegna della stampa persiana, che si affianca alla rassegna della stampa in lingua araba, in onda la domenica alle ore 13.
Questo naturalmente senza dimenticare il nostro sostegno verso tutte le forme di aiuto a difesa della Ucraina aggredita dalla Russia. Bene hanno finora agito Unione europea e Stati Uniti d’America, è ora che mostrino la stessa attenzione, forza e sostegno agli iraniani anch’essi in lotta per la loro e nostra libertà. Non è un caso che, da punti di vista diversi, sia il regime russo che quello iraniano abbiano come avversario dichiarato il modello occidentale, i diritti umani fondamentali universali, le libertà individuali.
Le lotte in corso in Ucraina e soprattutto in Iran dimostrano come la laicità dello Stato sia un prerequisito, anche se non l’unico, di una società fondata sullo Stato di Diritto. Sottolineare che lo Stato di Diritto è tale se è democratico, federalista e laico vale per il futuro dell’Ucraina e dell’Iran e per tutti i paesi che si richiamo al rispetto dei diritti umani per tutti e ovunque.
“Diritti umani per tutti e ovunque” è quanto c’era scritto sullo striscione che apriva la grande marcia che abbiamo organizzato il 10 dicembre. In poche parole, continuiamo a fare quello che abbiamo fatto e non quello che si vorrebbe noi facessimo, e sol per questo siamo irriconoscibili a volte anche ad alcuni iscritti al Partito. È un momento nel quale non possiamo fermarci, gli ucraini, gli iraniani, gli afghani devono avere un supporto subito, ora. Non c’è tempo da perdere, ancora una volta la gente comune dimostra come la libertà, di tutti e di ciascuno, è un diritto inalienabile per il quale si può decidere di rischiare la morte.
Non possiamo stare a guardare e noi stiamo agendo, qui ed ora, perché ovunque la libertà si affermi. C’è quindi da fare uno sforzo a partire dai “nostri” paesi: l’Unione europea, gli Stati Uniti d’America, sicuramente Israele e i tanti paesi che aspirano a sempre maggiori spazi di libertà.
Grazie a chi ha consentito che le lotte del Partito Radicale vivessero anche in questo anno e grazie a chi ha deciso o deciderà di farle vivere nel 2023. Vita donna libertà! Diritti umani per tutti e ovunque! Buon anno, ci vediamo presto.
di Maria Antonietta Farina Coscioni
Ora che siamo tutti più tranquilli: i pericolosi sette nemici pubblici evasi dal Cesare Beccaria sono stati riassicurati alla giustizia; ora che il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, nella sua foga interventizia si sarà pacato e sarà uscito dal suo iniziale stato di sconcerto; ora che il ministro della Giustizia Carlo Nordio ci ha opportunamente ricordato che la devianza giovanile è questione che chiama in causa istituzioni, scuola, salute, cultura e mondo dell’associazionismo.
In attesa di poter valutare in cosa si tradurrà esattamente l’annunciato “tavolo interministeriale” per “individuare soluzioni efficaci anche in termini di prevenzione”; ecco, forse si potrà, senza emotività e demagogia, cominciare a ragionare su una questione urgente e per troppo tempo colpevolmente disattesa e ignorata.
Per prima cosa va chiarito che l’evasione dal Beccaria, per quanto possa apparire grave, non può costituire una sorta di disvalore nei confronti dell’intero sistema approntato per cercare di contenere il fenomeno del disagio giovanile e tutto quello che questa emergenza comporta.
Ci volevano queste evasioni per prendere consapevolezza del fatto che un’istituzione, un tempo modello, ora è allo sbando per sovraffollamento, cantieri sempre aperti, nessun direttore da quasi vent’anni? Benefica evasione, viene da dire, se finalmente provocherà quello che don Gino Rigoldi, storico cappellano dell’Istituto, si augura sia “uno scossone”; e se, di conseguenza, ci costringerà a una riflessione sulla stessa istituzione, se abbia ancora una ragion d’essere.
Preziosa a proposito l’esperienza del “delinquenti non si nasce, ma si diventa” di don Ettore Cannavera, fondatore della comunità “La Collina”:
“Prima ancora che disumano oggi il carcere è fondamentalmente stupido. Non serve a niente e costa un enorme ammontare di denaro: davvero non si può fare di meglio? È la domanda che mi sono posto mezzo secolo fa, quando ho deciso di dedicarmi al carcere minorile. Se possibile, qualcosa di ancora più sciocco e inutile di quello per adulti. Ci ho passato gli anni, là dentro, le notti. Rendermi conto che i minori, in quel casermone, non avevano alcuna possibilità di essere rieducati, di ricominciare qualcosa che fosse una vita, a cui avrebbero avuto diritto, non è stato difficile. Quindi ho preso una decisione: se il carcere era stupido, costoso e inutile, ne avrei realizzato uno io. Utile ed economico, quindi intelligente. E mi sono messo al lavoro”. C’è voluto un quarto di secolo.
Numeri alla mano, don Cannavera esibisce i risultati più che positivi della sua quotidiana esperienza sul campo: “Funziona e costa molto meno dell’altro. Chi accetta di scontare la pena presso il nostro carcere smette di delinquere e, a fine pena, viene riaccolto nella comunità dei cittadini senza più commettere reati. In confronto al 70 per cento delle case circondariali, il nostro tasso di recidiva è infimo. E scende a zero se il detenuto compie per intero il percorso rieducativo: i pochissimi casi negativi sono tutti ragazzi che, per svariati motivi, hanno lasciato il nostro carcere in anticipo rispetto al necessario”.
Le carceri minorili sono 17; poi ci sono le comunità in cui sono ospitati minori autori di reato: 637, per lo più private. Qui, un primo problema: lo Stato prevede per legge l’esistenza di strutture per aiutare i minori poi, però, non le realizza, o non aiuta come dovrebbe chi apre quelle private. Le comunità gestite direttamente dal Ministero della giustizia sono in tutto tre. In passato erano molte di più, ma dal 2009 ad oggi ben 9 comunità ministeriali hanno sospeso o cessato la propria attività.
L’Italia è l’unico Paese in cui la messa alla prova viene concessa, ai minori, anche per reati gravissimi. Una scelta coraggiosa, in linea con il dettato costituzionale e una concezione “umana” della giustizia, da intendere non come punizione fine a se stessa, ma come possibilità di recupero e reinserimento. L’aspetto negativo è costituito dal fatto che gli operatori, in comunità e in carcere, sono pochi, scarseggiano i fondi per attività di recupero e reinserimento. Più facile esprimere “sconcerto”.
Permane una concezione della giustizia punitiva e vendicativa, e non come si dice con un brutto tecnicismo, “riparativa”. Un’idea di pena e di società che nulla ha a che fare con qualsivoglia riflessione pedagogica e con la centralità dell’essere bambino, adolescente, giovane adulto. Non c’è esperto che non riconosca che il sistema dei reati e delle pene per gli adulti presente nel codice del 1930 non soddisfa minimamente il principio, sancito nella Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia del 1989, del superiore interesse del minore. Occorre predisporre una diversa elencazione di reati e un ben più vario “sistema” sanzionatorio che superi la concezione carcerocentrica. Il furto di un ragazzino in un supermercato non può essere equiparato a quello in appartamento di una persona adulta. Si analizzino, si applichino i “sistemi” messi in essere dai tanti don Ettore Cannavera che ogni giorno svolgono un prezioso lavoro di affiancamento e vera e propria supplenza a quello che le istituzioni non riescono ad assicurare. Se il ministro Nordio si vorrà muovere in questo senso, sappia che avrà tutto il nostro appoggio e sostegno per superare con il Partito Radicale le carceri minorili.
di don Ettore Cannavera
Il carcere così non serve a niente
La nostra specie, Homo sapiens, ha non più di duecentomila anni, dicono gli scienziati. E, in tutto questo tempo, il carcere come pena, la segregazione per scontare un reato, è un respiro temporale brevissimo. Un’invenzione recentissima annunciata come atto di civiltà. Fino a poco tempo fa, infatti, i ladri venivano impiccato, se erano poveri cristi che rubavano per fame. I ricchi non avevano bisogno di rubare e non li impiccava nessuno. Adesso i ladri non li impicchiamo più: li chiudiamo in una cella per qualche anno. Sempre i poveri cristi, beninteso, i ricchi la scampano anche oggi. E il povero cristo, siccome esce dalla galera ancora povero cristo, ruba nuovamente. Così ritorna in carcere oppure vive rubando e danneggiando la società. Questo lo dicono i numeri: sette detenuti su dieci, a fine pena, escono dal carcere e delinquono di nuovo. Però, ogni anno, in Italia spendiamo in carceri la cifra non disprezzabile di 3 miliardi di euro. Abbondanti. Sorge spontanea una domanda: ci volevano duecentomila anni e l’appellativo di sapiens, per inventare una cosa così stupida? Per immaginare un’istituzione che anziché cercare di rieducare i colpevoli di reati e riconciliarli con la società, li immette in un sistema che, nella migliore delle ipotesi, li lascia come sono, ma in realtà li peggiora, ributtandoli a spasso pronti a delinquere? E non si parli di sicurezza: in Italia vengono sanzionati penalmente il 5 per cento dei reati. Il 95 per cento resta impunito. Sarebbe questa la sicurezza?
Sì, prima ancora che disumano, perché lo è, oggi il carcere è fondamentalmente stupido. Non serve a niente e costa un enorme ammontare di denaro: davvero non si può fare di meglio?
È la domanda che mi sono posto mezzo secolo fa, quando ho deciso, per libera scelta, sollecitato da un amico, di dedicarmi al carcere minorile. Se possibile, qualcosa di ancora più sciocco e inutile di quello per adulti. E ben più costoso. Ci ho passato gli anni, là dentro, le notti. Rendermi conto che i minori, in quel casermone, non avevano alcuna possibilità di essere rieducati, di ricominciare qualcosa che fosse una vita, a cui avrebbero avuto diritto, e che sarebbe stato utile per la società, non è stato difficile.
Quindi ho preso una decisione: se il carcere era stupido, costoso e inutile, ne avrei realizzato uno io. Utile ed economico, quindi intelligente. E mi sono messo al lavoro.
C’è voluto un quarto di secolo per iniziare e questo può significare almeno due cose: che io non sono poi così intelligente e che inventare un carcere utile – che funzioni, utile per la società – non è un compito semplice. Però sono anche testardo e dopo venticinque anni ci sono riuscito: ho realizzato il mio carcere e l’ho fatto funzionare per un altro quarto di secolo, accogliendo detenuti colpevoli di reati gravissimi. E dopo questo secondo quarto di secolo posso dire, numeri alla mano, che il mio carcere (anzi, il nostro carcere, perché moltissime persone mi hanno aiutato e continuano a farlo) funziona e costa molto meno dell’altro. Ripeto, lo dicono i numeri: chi accetta di scontare la pena presso il nostro carcere – posto che l’autorità giudiziaria lo ritenga opportuno e sussistano le condizioni di legge – smette di delinquere e, a fine pena, viene riaccolto nella comunità dei cittadini senza più commettere reati. In confronto al 70 per cento delle case circondariali, il nostro tasso di recidiva è infimo. E scende a zero se il detenuto compie per intero il percorso rieducativo: i pochissimi casi negativi sono tutti ragazzi che, per svariati motivi, hanno lasciato il nostro carcere in anticipo rispetto al necessario.
Ora che venticinque anni di lavoro stanno là a dimostrare che la nostra idea di carcere funziona, è venuto il momento di illustrare ciò che facciamo, di diffonderlo, di invitare altri a seguire la stessa strada: bisogna proporre il nostro modello alla società affinché prenda atto che un carcere utile e logico è possibile. E, per farlo, abbiamo deciso di trasferire in un libro la nostra esperienza. Ma non un libro per gli addetti ai lavori. Non per educatori, sociologi, criminologi, operatori sociali. Costoro sanno già benissimo che il carcere è disfunzionale e conoscono esperienze simili alla nostra, ne comprendono la validità. Sono tutti gli altri che devono essere informati, i cittadini e i politici. I giudici e i poliziotti. Le guardie e i ladri.
Fin dall’inizio è stato chiaro che sarebbe stato necessario descrivere dapprima il carcere segregativo, quello che comunemente chiamiamo “galera”. In modo tale che, successivamente, esaminando le nostre metodologie, si potessero trarre conclusioni in merito alla loro validità. Avrei potuto farlo io, il carcere l’ho frequentato per decenni, conoscendo centinaia di reclusi, se una semplice considerazione non mi avesse suggerito di evitarlo: la galera può conoscerla solamente chi l’ha subita. Non ci sono succedanei della segregazione, dell’impossibilità di disporre di sé stessi. Né è possibile immaginare i mille aspetti di una vita in prigionia se non li si è provati direttamente. La cosa più opportuna sarebbe stata affidare l’incombenza a chi avesse auto la disgrazia di provare sulla propria pelle la sventura di finire dentro.
Il carcere dentro le lettere
Sergio ha accettato di mettere a disposizione la sua esperienza di ex carcerato per cercare il senso della reclusione all’interno delle migliaia di lettere a me indirizzate, raccolte in un quarto di secolo di attività nelle carceri. Sono tutte richieste di aiuto e solo chi avesse visto scriverne di simili dentro una cella, in condizioni inimmaginabili da chi non ci sia mai stato, avrebbe potuto analizzarle, leggendo tra le righe, le parole, le grafie, i disegni, i pezzi di carta di recupero. I sottili segnali del disagio dei drogati, dei disabili psichici, degli stranieri immigrati, le vergogne dei poveri detenuti privi dei mezzi necessari per mangiare ma alla ricerca spasmodica di un francobollo per chiedere aiuto all’esterno.
Sergio ha cercato il carcere dentro le lettere e l’ha raccontato senza sconti, con lucidità. Poi l’ho invitato a passare del tempo nel nostro carcere, nella Comunità La Collina, a Serdiana. Per scrivere il libro Sergio ha accettato di rientrare in carcere. Il risultato è “chi sbaglia paga”, il libro che pretende di cercare una spiegazione del perché il nostro carcere è logico e utile in contrapposizione a una galera segregativa illogica e inutile. Da una parte la sola segregazione in un ambiente criminogeno, dall’altra una vita ordinata di lavoro e legalità. Anche questa segregativa, beninteso, chi sta nel nostro carcere non è certo libero, ma orientata alla rieducazione. Per inciso, come richiesto dalla Costituzione della Repubblica italiana all’articolo 27.
Il libro parla un po’ troppo di me e non ne sono particolarmente contento. Anche quando il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella mi ha insignito del titolo di commendatore della Repubblica per il lavoro che facciamo in Comunità, gli ho fatto notare di essere solo il direttore di un’orchestra di ottimi musicisti, senza i quali la nostra attività non sarebbe possibile. Loro sono ben più importanti di me. Ma era lo scotto da pagare per spiegare come sono andate le cose, come ci sono voluti venticinque anni per dare inizio alla vita di un nuovo carcere che vorrei contagiasse altre realtà. Non per orgoglio o spocchia, ma perché i numeri, la fredda matematica, dimostrano la possibilità di un carcere utile che dia giustizia ai cittadini e che rieduchi i colpevoli di delitti anche gravi senza sconti, compiendo l’opera vantaggiosa alla società di reimmettere al suo interno persone che si comportino secondo le leggi, dunque senza compromettere la sicurezza collettiva.
Perché un carcere logico è possibile.
(Introduzione al libro “Chi sbaglia paga”, di Sergio Abis, Chiarelettere edizioni)
di Eduardo De Filippo
(Eduardo De Filippo: il nome dice tutto. Per i suoi meriti artistici e i contributi alla cultura, il presidente della Repubblica Sandro Pertini lo nomina senatore a vita. Il suo primo intervento in Senato, è l’illustrazione di una sua interpellanza che ha per oggetto il carcere minorile Filangeri di Napoli. Di seguito il resoconto stenografico della seduta del 23 marzo 1982)
Amintore Fanfani, presidente del Senato: “l’ordine del giorno reca lo svolgimento di una interpellanza concernente l’istituto Filangieri di Napoli. Se ne dia lettura.
Il testo dell’interpellanza:
Al Ministro di grazia e giustizia. Per conoscere: quale sia il giudizio del Governo, nel quadro dei drammatici problemi del Meridione e dell’area napoletana in particolare, sull’attuale ruolo e sul modo di funzionare dell’istituto «Filangieri» per la rieducazione dei minori, specchio e contemporaneamente causa dei molti problemi sociali di quella realtà così duramente colpita da eventi di carattere non solo naturale; quali provvedimenti e iniziative il Governo intenda prendere perché gli oltre mille ragazzi che annualmente passano attraverso il «Filangieri», lungi dal trovarvi incentivi e sollecitazioni ad entrare nella delinquenza abituale, vi trovino invece le condizioni per mettere il meglio di loro al servizio delle loro famiglie e della comunità nazionale.
Senatore Eduardo De Filippo: Domando di parlare.
Presidente Fanfani: “Nel dare la parola al senatore De Filippo, che per la prima volta interviene in quest’Aula, gli rinnovo i rallegramenti per la recente nomina a senatore a vita e gli rivolgo i migliori auguri per il prosieguo della sua attività parlamentare. Il senatore De Filippo ha facoltà di parlare”.
Senatore De Filippo: “Onorevole Presidente, onorevole Ministro, onorevoli colleghi, avrei voluto incontrarmi prima con voi, molto prima di oggi, ma non mi è stato possibile a causa di impegni assunti prima ancora di ricevere la nomina a senatore a vita dal nostro presidente Sandro Pertini, al quale da quest’Aula sento il bisogno di rivolgere un caloroso e affettuoso saluto. Non che io consideri questa nomina puramente onorifica, anzi, a me piacciono le responsabilità e non le ho mai rifiutate quando mi è sembrato giusto prendermele. In questo periodo ho lavorato moltissimo. Del resto la stampa ha sempre dato notizie sulla mia attività. Con tutto il da fare che ho avuto non ho trascurato di occuparmi dell’istituto Gaetano Filangieri di Napoli e dei ragazzi che spesso, a causa di carenze sociali, hanno dovuto deviare dalla retta via; e nei prossimi mesi intendo dedicare a loro più tempo di prima. E su questo vorrei soffermarmi. Avrò bisogno del vostro aiuto e spero che quando ve lo chiederò mi darete una mano. Si tratta di migliaia di giovani e del loro futuro. E essenziale che un’Assemblea come il Senato prenda a cuore… (scusatemi perché questo forse avrei dovuto precisarlo prima: io sono stato operato da poco ad un occhio e devo leggere un po’ piano, scusatemi tanto). Dunque si tratta di migliaia di giovani e del loro futuro ed è essenziale che un’Assemblea come il Senato prenda a cuore la riparazione delle carenze dannose, posso dire catastrofiche, che da secoli coinvolgono quasi l’intero territorio dal Sud al Nord dell’Italia. Mi sono sempre domandato quale potrebbe essere il mio contributo affinché la barca di questi ragazzi che sta facendo acqua da tutte le parti possa finalmente imboccare la strada giusta. Sono convinto che se si opera con energia, amore e fiducia in questi ragazzi molto si può ottenere da loro. Ne ho pensate di cose nei mesi scorsi e c’è da fare, si può fare, ne sono certo. Di questi miei propositi vi farò per il momento solamente un cenno; in seguito, quando saranno meglio assestati, più completi nei particolari, chissà che non venga fuori un progetto da prendere sul serio in considerazione. Senza vanità, ve lo assicuro, vorrei parlarvi ora di quel poco che ho già fatto nelle mie commedie, le quali, anche se non sono dei capolavori, anche se forse non mi sopravviveranno come hanno sostenuto e sostengono tuttora alcuni critici, hanno però il merito di aver sempre trattato i problemi della società in cui ho vissuto e vivo proponendoli dal palcoscenico all’attenzione delle autorità e del pubblico. Lasciando da parte i testi scritti durante il fascismo, quando le allusioni alle malefatte sociali e politiche erano, a dir poco, mal viste e quindi i granelli di satira bisognava nasconderli tra lazzi, risate e trovate comiche, a partire dal 1945 in poi non c’è stata commedia scritta da me che non abbia riflettuto aspetti della realtà sociale italiana. Prendiamo la prima: «Napoli milionaria», poi riprenderemo il discorso del Filangieri. In questa «Napoli milionaria» ho trattato vari problemi del nostro paese, molti dei quali ancora oggi irrisolti, primo fra tutti la questione morale, poiché solo su una base morale l’uomo attraverso i secoli ha edificato società e civiltà. Tenendo conto delle proprie necessità economiche e delle fonti di ricchezza dalle quali dipende il proprio benessere, l’uomo si è sempre creato regole di comportamento etico che ha dovuto poi proteggere con le leggi. E ovvio che queste norme col passare del tempo e con l’accrescersi delle conoscenze scientifiche dell’uomo diventano anacronistiche e vanno cambiate e assieme ad esse le leggi. Il guaio succede quando si è costretti a vivere nel vortice sfrenato del consumismo di oggi obbedendo a leggi vecchie e superate. E in questo, a mio parere, consiste la presente ingovernabilità del nostro paese; insomma ogni santo giorno noi italiani ci troviamo di fronte al solito dilemma: o vivere fuori del nostro tempo o fuori delle nostre leggi. Ma torniamo a Napoli, a «Napoli milionaria» e alle questioni che con quella commedia ponevo sul tappeto e che sul tappeto sono rimaste. Nel 1945, finito il fascismo, finita la guerra si doveva iniziare la ricostruzione del nostro paese mezzo distrutto e messo in ginocchio dalla sconfitta. Dice Gennaro Iovine, il protagonista della commedia: «La guerra non è finita, non è finito niente» e al finale «adda passà a’ nuttata». Attraverso queste semplici parole, semplici ma niente affatto sciocche, il reduce voleva significare che c’era ancora da combattere nemici potenti e agguerriti quali il disordine, la borsa nera, la corruzione, la prepotenza, la disonestà, se si pensava di costruire tutti insieme, Governo e popolo, una società nuova, giusta dove il potere svolgesse le sue funzioni. Avevamo perduto la guerra e sentivamo che ci sarebbe stato bisogno di sacrifici per conquistare la libertà e il benessere sociale. In quel periodo, subito dopo la Liberazione, il popolo era pronto a farli i sacrifici; ci si sentiva come affratellati dalla speranza che valeva bene qualche privazione per essere pure noi artefici della nostra vita e di quella dei nostri figli. Ma ecco invece che cominciano ad arrivare gli aiuti e non in maniera morale, normale, accettabile e benefica, bensì in quantità esagerata che ha falsato tutto lo sviluppo delle nostre sacrosante aspirazioni. Insomma siamo entrati nella storia del dopoguerra come protagonisti non paganti, come entrano in teatro i portoghesi, che lo spettacolo se lo godono meno di tutti perché non hanno pagato il biglietto. Così noi, non avendo pagato, non abbiamo avuto la soddisfazione di chi si conquista il benessere col proprio lavoro sentendosi soddisfatto di avere collaborato con il Governo. Quale è stata la conseguenza? La spaccatura che si è prodotta tra il popolo e la classe dirigente. Mi sembra che in questa «Napoli milionaria» siano stati profeticamente indicati problemi importanti, da prendere in considerazione ancora oggi: il rapporto cittadino-Stato; la necessità di responsabilizzare l’individuo facendolo partecipare attivamente alla ricostruzione della società, che poi di individui è fatta. Tutto questo che ho detto non è estraneo all’argomento che ho scelto per la mia interpellanza in quanto gli avvenimenti che si sono verificati dalla fine della guerra ad oggi hanno influito in maniera pesante sulle sorti dell’istituto Gaetano Filangieri e di tanti altri istituti di rieducazione dei minori. Alla fine del 1981, invitato dai ragazzi e dal loro direttore, dottor Luciano Sammella, ho visitato il Filangieri e come l’ho trovato ve lo posso dire in due parole. Camere da letto tutte con docce e servizi igienici per due o tre ragazzi; cucina enorme e pulitissima; ogni gruppo di 15 ragazzi ha un televisore e un accogliente ambiente per il tempo libero; per l’aria, un cortile molto vasto e un piccolo gruppo di ragazzi sotto controllo della magistratura va a lavorare fuori presso artigiani. In genere sono 60 ragazzi, ma durante l’anno ne passano oltre 1.500 che poi vanno smistati in altri istituti. C’è perfino un teatrino che io stesso inaugurai in occasione di quella visita! Un complesso veramente degno, dove i ragazzi vengono curati, assistiti secondo princìpi umani e civili, non solo, ma vengono istruiti e perfezionati ognuno nel mestiere da lui scelto. Naturalmente – c’è da aspettarselo – le finanze non sono adeguate alle necessità di un istituto del genere. Ma non è questo il punto nevralgico della situazione. I ragazzi di 11-12-13 anni, che sono poi le vere vittime di una società carente come la nostra nei riguardi della gioventù, entrano nell’istituto in attesa di giudizio e vi restano spesso per anni e anni in quanto, o per la mole di lavoro o per l’asmatico meccanismo burocratico, i processi subiscono sempre lunghissimi ritardi e rinvii. Compiuti i diciotto anni, poi, ancora in attesa di giudizio, i ragazzi vengono trasferiti nelle carceri di Poggioreale. Finalmente, celebrato il processo, mettiamo che l’imputato venga assolto, dove si presenta una volta messo in libertà? Chi è disposto a dare fiducia e lavoro ad un avanzo di galera? Questa non è una domanda che mi sono posto io, che non conoscevo il Filangieri. È una domanda angosciosa che si pongono gli stessi ragazzi dell’istituto che, durante la mia visita di quel giorno, chiesi (e mi fu accordato dal dottor Luciano Sommella) di avvicinare da solo a solo. I ragazzi mi dissero: «Non usciamo da qui con il cuore sereno, in pace e pieno di gioia, perché se quando siamo fuori non troviamo lavoro né un minimo di fiducia per forza dobbiamo finire di nuovo in mezzo alla strada! La solita vita sbandata, gli stessi mezzi illeciti, illegali per mantenere la famiglia: scippi, furti, la rivoltella, la ribellione alla forza pubblica. Insomma siamo sempre punto e daccapo». Ora bisogna tener conto del fatto che i napoletani, e in specie quelli di 18 anni, sono pieni di fantasia, pieni di spontanee iniziative in caso di emergenza, sempre vogliosi e mai appagati di un minimo di riconoscimento sincero per la loro vera identità. Ci voleva una guerra perché gli spaghetti, la pizza con la pommarola, le canzoni, le chitarre e i mandolini invadessero l’Europa e l’America, e mettessero fine finalmente ai luoghi comuni: mandolinisti, mangia maccheroni, sfaticati, terroni eccetera. Adesso le canzoni le cantano pure loro, su al Nord. Illustri senatori e amici, ho girato il mondo e ho constatato con questi occhi qual è il rendimento del lavoratore italiano e qual è il suo vivere civile quando si trova all’estero. Ne ho conosciuti a centinaia, sia in America che a Londra, specialmente a Londra dove non c’è differenza, nessuna differenza, tra una tazza di tè e un bicchiere di vino del Vesuvio, dove l’emigrante, per dirla alla Troisi, trova quel riconoscimento che nel proprio paese di origine gli viene negato. Ecco che il napoletano, quello appartenente alla categoria di cui ci stiamo occupando, se vuole vivere e trovare lavoro nella città che gli ha dato i natali, come sarebbe poi suo diritto, deve ricorrere a trovate pulcinellesche o a mezzi equivoci e illegali che gli possono dare la certezza di tornare la sera a casa sua, solo che riesca a non farsi beccare dalla polizia. E sarebbe una vita questa? È necessario ora, prima di chiudere il mio intervento, che vi parli brevemente della celebre nave Caracciolo. Sono certo che molti di voi, illustri colleghi, ricordino lucidamente quale compito fu affidato a questa enorme corazzata, a questa imbarcazione. Il progetto fu ideato nel 1917 da un ammiraglio, le sue richieste furono ben viste e in breve tempo accettate dal Governo di quel tempo. Fu così che il fortunato ammiraglio poté realizzare il suo sogno: ebbe in dotazione dallo Stato una vecchia corazzata su cui vennero ospitati i figli dei marinai, quelli dei pescatori e gran parte dell’infanzia abbandonata. L’intero equipaggio della provvidenziale corazzata, tutti diciottenni, si rendeva conto della disciplina di bordo: lavoro sodo, rigoroso, adatto allo sviluppo fisico, imparava a leggere, a scrivere, attraversava i mari, veniva a contatto con altri popoli e altre civiltà, aria sana, sole e volontà di vivere. Da mozzi diciottenni, diventati marinai venticinquenni, se ne tornavano alle loro case, presso le loro famiglie, orgogliosi, felici e schizzanti salute dagli occhi. L’iniziativa ebbe un successo trionfale, arrivò persino sulle tavole dei caffè chantans. Viviani – che allora faceva solamente il varietà, non aveva ancora la compagnia di prosa – mise in giro una canzone. Vi dico i versi: «Addio botte co’ pere, capriole pe’ a città, pezzulle ‘e marciapiedi non me siente chiu’ ronfa’. Io tengo chi m’ha dato vitto, alloggio e civiltà. ‘A folla dei scugnizzi mo’ so’ a meglio gioventù, fotografa ‘sti pizzi che addo’ vai non trovi chiu’, e quanno torni in patria sviluppa e fà vede’: tenimmo sempre roba megli’ e te». L’ammiraglio Caracciolo dovette pensare: forse riesco a riunire i ragazzi dell’istituto Le cappuccinelle (così si chiamava allora l’istituto Gaetano Filangieri di oggi); la marina italiana ha bisogno di marinai. Dopo la guerra ‘14-18, la nave Caracciolo durò altri dieci anni. Non mi sono note le ragioni della sua scomparsa, ma, avendo vissuto l’epoca cui mi riferisco, posso solo ipotizzare che i fermenti fascisti, dopo quella guerra, erano agli albori. Giorno dopo giorno Mussolini guadagnava quota. Non starò qui a raccontarvi la storia di come nacque il fascismo ma, in riferimento alla nave Caracciolo, si trattava di una vecchia corazzata. Chissà, forse quell’iniziativa del vecchio lupo di mare, l’ammiraglio, fu accolta da Mussolini. Lui visse quei tempi e ci possiamo spiegare la nascita del balilla: per i diciottenni, il premilitare. E ancora, le giovani italiane, le colonie marine, i treni popolari, il dopolavoro: tutte istituzioni che hanno qualcosa in comune con la vecchia corazzata. L’Italia, diceva l’ammiraglio, ha bisogno di marinai. In sostanza, il progetto del vecchio ammiraglio, secondo le idee e abitudini mussoliniane, diventò macroscopica. Illustre signor presidente Amintore Fanfani, egregio signor Ministro di grazia e giustizia, onorevoli senatori di ogni partito e tendenza, non desidero una seconda nave Caracciolo. Propongo invece di sollecitare il Governo affinché dia il via all’assegnazione al Filangieri di uno spazio in una località ridente su cui costruire un villaggio con abitazioni e botteghe dove i giovani, già avviati a mestieri e all’artigianato antico, possano abitare e lavorare ognuno per conto proprio, assaggiando in tal modo il sapore del frutto sulla loro sacrosanta fatica, recuperando la speranza e la fiducia di una vita nuova che restituisca loro quella dignità cui hanno diritto e che giustamente reclamano. Le infinite specializzazioni di arti e mestieri (pellettieri, fabbri, restauratori, ebanisti, pittori, sarti, cuochi, pasticcieri eccetera) renderebbero il villaggio un centro operoso di qualificati prodotti artigianali, di cui tanto si auspica il ritorno, e ciò sarebbe non solo un richiamo di ordine turistico su scala internazionale ma anche e insieme fonte di guadagno e di indipendenza economica per questi giovani del villaggio che mi augurerei potesse assumere il suo vecchio nome Le cappuccinelle. Quel grandissimo poeta napoletano, Giuseppe Marotta, definì i napoletani in genere “Gli alunni del sole”».
di Salvatore Sechi
Sull’attività (retribuita) di lobbying a favore della corrotta e retrograda monarchia del Qatar si è imbastita una campagna di esecrazione che vede imputati la vice-presidente dell’Unione Eva Kaili, un paio di dirigenti ex comunisti (del rango dell’ex segretario della Cgil di Milano Antonio Panzeri), parlamentari pidiessini e sicuramente una rete di socialisti europei. A cominciare le danze sono stati i leader dell’Unione europea. Ma c’è un limite a tutto. Come si fa a non sorridere quando la presidente Ursula von der Leyen si è occupata di queste faccende?
Si tratta, infatti, della stessa persona che ha siglato contratti multimiliardari per l’acquisto di vaccini anti-Covid con grandi imprese farmaceutiche, come la tedesca Pfizer. Alla richiesta di esibire il prezzo per potere fare una valutazione comparativa e stabilire quale accordo fosse più vantaggioso, prima ha negato l’accesso alle carte e poi e ha mostrato testi pieni di cancellature e correzioni. Una vicenda penosissima che ha ancora una volta gettato un’ombra livida su questa costruzione europea.
In secondo luogo, la stessa signora che oggi alza il tiro (a ragione, dico subito) contro le spudorate pratiche lobbistiche della sua vice, di Panzeri e Cozzolino cova a tutt’oggi il silenzio su un suo connazionale, il capo della socialdemocrazia ed ex cancelliere Gerhard Schröder. Egli è stato anche presidente della commissione societaria di Nord Stream AG e del consiglio di amministrazione Nord Stream 2 AG, i due gasdotti che uniscono la Russia alla Germania. Appena ha lasciata la presidenza del governo tedesco si è insediato alla testa della maggiore società petrolifera dell’ex Impero sovietico Gasprom. Notoriamente svolge un’intensa attività di infiltrazione presso i governi e la stampa, e anche di spionaggio. A quale peso d’oro è stato pagato il silenzio mantenuto sull’intera vicenda dall’Unione europea?
In Italia il Partito Democratico e i giornali ad esso collegati (da “Repubblica” a “Il Domani” e al “Fatto Quotidiano”) invocano pulizia, trasparenza, sanzioni, nuove regole istituzionali. Al solito agitano come esempio da seguire, anzi modello, il comportamento dell’ex segretario del Pci di Enrico Berlinguer.
In una nota intervista al quotidiano da lui fondato e diretto, “la Repubblica”, Eugenio Scalfari sollevò la cosiddetta “questione morale” nei confronti dei partiti (ma l’allusione era ai socialisti di Bettino Craxi) e di quanti nella sinistra intendevano fare politica come professione.
In realtà intervistato e intervistatore affrontarono un tema importante senza avere scoperchiato i cadaveri che entrambi avevano nei rispettivi armadi. Per essere presi elementarmente sul serio Berlinguer e Scalfari avrebbero dovuto fare una premessa, che ancora oggi nessuno degli opinionisti o dei dirigenti del PD ha il coraggio di fare: condannare senza mezzi ter mini ogni forma di finanziamento di cui il PCI e successivamente il PD sono stati destinatari da parte di singole persone, imprese private o pubbliche, paesi stranieri ecc.
Berlinguer non l’ha fatto per due ragioni. La prima: non poteva ripudiare il passato, a cominciare dalla fondazione, nel 1921, del partito che dirigeva. La seconda: ha sempre ritenuto che i paesi del cosiddetto “socialismo reale” rispetto al consumismo sfrenato e chiassoso dei paesi capitalistici potevano contare su una vita, su costumi, su un consumo del tempo libero morigerati.
Di qui egli ricavava la prova della superiorità etica dei paesi comunisti. Non ha mai considerato che questi comportamenti discreti, sobri erano l’esito del carattere dispotico del comunismo, dell’uso tirannico, corrotto, persecutorio del potere come della povertà dominante al punto da provocare paura, indurre i cittadini oppressi ad ogni possibile contenimento dei loro bisogni.
A incoraggiare Berlinguer sulla strada impervia di costruire la più estesa sfera di autonomia da Mosca e contemporaneamente di esaltare l’etica francescana dei popoli ad essa soggetti è stato il suo segretario Antonio Tatò. In lui, leale compagno del Cominform, è rimasta sempre incoercibile lo spirito di scissione in base al quale i comunisti si sono separati dai socialisti. Coerentemente ha sempre insistito (vincendo la partita) perché Berlinguer perorasse una fantastica “terza via”, diversa cioè da quella storicamente incarnata dal comunismo e dalla socialdemocrazia. Ancora oggi il PD (un partito-agenzia-di-collocamento assai raffazzonato tra pezzi della sinistra democristiana e del berlinguerismo) conserva come un trofeo e valore identitario la distanza dalle socialdemocrazie europee, e una relativa avversione. Si tratta di un punto programmatico preciso. Direi l’unica cosa che lega i sopravvissuti dei due vecchi partiti.
Per questa ragione non ho mai capito come un socialista liberale o un liberalsocialista possano collaborare col PD e peggio ancora votarlo. Al pari dei comunisti, i loro eredi, considerano non solo Craxi, ma i laburisti inglesi, i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi degli avversari storici, se non proprio dei nemici.
A riflettere su questi argomenti spinge la riedizione recentissima del volume di Gianni Cervetti, “L’oro di Mosca”. Si tratta di un saggio equilibrato e insieme coraggioso. Ne va consigliata la lettura perché il finanziamento sovietico del PCI è un pezzo cruciale della storia dei loro rapporti e rappresenta una vera e propria stimmate.
Gli iscritti non hanno mai ritenuto che ricevere dei soldi, dal 1921 fino al 1978 (quando ebbe luogo la rottura definitiva e il PCI cambiò nome), sia stato una vicenda da condannare. Tant’è vero che quando è stato chiaro che anche il PCI, oltre ai rubli convertiti mensilmente in dollari presso una banca del Vaticano, riceveva soldi da imprese di Stato e private o dagli appalti pubblici, si è assistito alla nascita di una sorta di paradigma identitario: rubare per il partito non è disdicevole, non può essere considerato un reato. Tali, per i comunisti, andavano considerati gli atti per cui i finanziamenti esterni finiscono in mani private e vengono usati non per finanziare la politica, ma per un arricchimento personale.
Sulle diverse forme in cui in Europa occidentale i partiti hanno declinato il rapporto con le risorse per sopravvivere la migliore rassegna bibliografia e analitica è opera di Giuliano Amato e Francesco Clementi. Questa spiegazione può derivare dalla concezione del partito (il PCI in questo caso) come una religione, alla quale si debbono sacrificare valori e comportamenti.
Gianni Cervetti e Francesco Giasi (uno dei direttori della Fondazione Gramsci) hanno la mano felice quando raccontano il clima interno (le azioni dei magistrati di Mani pulite contro la prassi delle tangenti, il finanziamento pubblico ecc.) e internazionale (la guerra fredda), e le inquietudini che fece nascere in seno al gruppo dirigente comunista la proposta di Cervetti (concordata con Berlinguer) di mettere fine all’oro di Mosca.
Non condivido le ragioni con cui finiscono per giustificare il fatto che un partito (era il caso dei comunisti) possa essere finanziato dall’esterno, da un paese straniero come l’Unione Sovietica, senza compromette re gravemente la propria indipendenza. Finanziamento non occasionale (com’era quello degli Stati Uniti alla Democrazia Cristiana e ad alcuni suoi rappresentanti come Alcide De Gasperi, Giulio Andreotti e Aldo Moro), ma permanente e pervasivo.
È durato più di mezzo secolo e veniva onorato mensilmente o trimestralmente. Con interventi supplementari quando c’erano campagne elettorali non previste o quotidiani in difficoltà (è il caso di “Paese Sera”). L’URSS non era un nostro alleato, era anzi schierato dall’altra parte negli equilibri internazionali. Grazie al Patto di Varsavia costituiva anzi una minaccia alla nostra sicurezza e indipendenza.
Ma anche negli anni tra le due guerre per i dirigenti comunisti italiani (e i loro compagni di mezzo mondo) il cospicuo flusso di rubri/dollari dal PCUS al PCI si è svolto regolarmente. Pare abbia avuto un protagonista d eccezione (il predecessore di Cervetti subito dopo il 1921) in un non iscritto al partito (o iscritto sotto copertura) come Piero Sraffa, l’economista di Cambridge legatissimo ad Antonio Gramsci. Per questa attività si è coniata la metafora “commercio dei datteri”. La testimonianza viene da uno dei dirigenti apicali della Fondazione Gramsci di Roma, Giuseppe Vacca che è anche uno studioso a apprezzato e mai temerario nei suoi giudizi: “Ci sembra sufficientemente provato l’inserimento di Sraffa, dopo l’elezione di Gramsci a segretario, nella rete delle attività di partito riservate e coperte” (1).
Un velo di silenzio Cervetti e Giasi stendono su un’altra circostanza: l’addestramento militare che il PCUS riservava a gruppi di giovani comunisti inviati a Mosca da Botteghe Oscure. È una consuetudine che è durata fin quando il PCI non ha progressivamente dimesso l’idea di dotarsi di un apparato para-militare o per conquistare il potere (fin quando il Cominform ha investito su questa prospettiva) o per difendersi da torsioni autoritarie dei estrema destra (cioè per motivi di autodifesa).
Nella cultura dei comunisti è ancora vivo il legame ad un rito iniziatico: il fatto che il PCI sia nato come la sezione italiana dell’Internazionale comunista e quindi la sua libertà di azione portava quella sia di armarsi sia di avvalersi di risorse proveniente dai paesi del Commonwealth sovietico.
In secondo luogo permane ancora la convinzione che la guerra fredda sia stata una rottura dell’unità antifascista realizzatasi nella guerra contro il nazi fascismo. E la responsabilità sarebbe degli Stati Uniti, della sua vocazione imperialistica.
Anche da questo interessante libro scaturisce una gran de indulgenza sul disegno staliniano di estendere la propria presenza in Europa sia con colpi di mano, elezioni-truffa, interventi e minacce (com’è avvenuto in Germania, Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia e Bulgaria) sia servendosi dei partiti comunisti locali per arroventare i rapporti sociali e di classe con scioperi, agitazioni ecc. in Grecia, Italia, Francia, Belgio, Regno Unito, Spagna ecc. Per non parlare della molecolare penetrazione nel Mediterraneo e nell’Africa subsahariana fino all’Afghanistan, alla Siria, ecc.
In terzo luogo, persiste la difficoltà a rendersi conto, sul piano storiografico e politico, che in nessun paese comunista sono stati preservati gli istituti della tradizione liberale, quindi i diritti di libertà, di organizzazione, le autonomie ecc. Il comunismo ovunque ha dato vita a mostruosi stati e regimi che Gramsci chiamava di neo-bonapartismo. Con un lessico meno colto si trattava di forme più o meno aggiornate di dispotismo e di oppressione dei cittadini, a cominciare dalla stessa classe operaia e dai contadini.
Come si fa a esorcizzare questa realtà accusando chi non l’accettava, e la denunciava, di pregiudizio e ostilità preconcetta, cioè di anti-comunismo? Non è stata solo una reazione degli maggiori interessi capitalistici offesi, ma la percezione di massa, popolare, che la grande politica per realizzare un regime di eguaglianza da Lenin in avanti si è incarnata in micidiali macchine di potere, in apparati militari e forme parossistiche di controllo della vita personale e collettiva. Questo è stato il fallimento del comunismo che non si può negare o ridimensionare con le vecchie contrapposizioni degli anni Cinquanta.
Cervetti e Giasi non si pongono la domanda che me pare essenziale: quale sarebbe stata la storia del nostro paese dal punto di vista dell’ampliamento dei diritti civili e individuali, delle riforme economiche sociali, della creazione di organi di autogestione e autogoverno nei luoghi di lavoro ecc., se i comunisti dopo la seconda guerra mondiale avessero posto fine allo spirito di scissione dal quale sono nati e si fossero riconosciuti in una sinistra liberal-socialista (o socialista-liberale)? Oggi possiamo dire che la fine del finanziamento sovietico al Pci ha troncato una prassi che violava la cultura che informa la carta costituzionale, ma non ha sostanzialmente ridotto o contenuto il legame col sovietismo poststaliniano. Per un buon tratto di anni è andato avanti sulla base della tragica illusione di Berlinguer, condivisa da Cervetti, che il comunismo fosse un sistema, una realtà riformabile. Solo nell’intervento al XXV congresso del PCUS (2 novembre 1977) Berlinguer si decise, ebbe cioè il coraggio di affermare il valore universale della democrazia.
Giasi fa bene a ricordare le date in cui questa presa di posizione si è delineata. Mi pare, però, opportuno sottolineare che il dibattito sul rapporto tra comunismo e istituzioni liberali che ebbe come protagonisti, nella metà degli anni Cinquanta, Norberto Bobbio e Palmiro Togliatti ha subito un riserva così importante da durare oltre venti anni. Giasi potrebbe dimostrare con la sua prosa asciutta e serena e il dominio delle fonti che dalla metà degli anni Trenta anche Gramsci aveva cessato di credere nello “Stato operaio”, come amava chiamare, subito dopo l’ottobre del 1917, l’Unione sovietica, in preda alla fascinazione di Lenin. Il suo disincanto è già nel lessico definitorio, Stato neo-bonapartista.
A restare irretito nella logica del filo-sovietismo per tutta la guerra fredda fu un grande economista, amico di Gramsci, Sraffa. Nel trentennio 1947-1975 il lavoro di consulente editoriale prestato a Giulio Einaudi si è dipanato proponendo la pubblicazione di saggi che difendessero l’Unione sovietica. La sua linea di condotta è manifestata in una lettera a un redattore torinese, Ubaldo Scassellati, della casa editrice. Gli fa sapere che nella scelta di quale autore pubblicare su un argomento come quello dell’URSS la prima cosa che accertava era la sua “posizione politica”. Fortunatamente l’Einaudi non lo ha sempre assecondato.
Togliatti e Berlinguer hanno impiegato una quarantina di anni, fino al 1977, per arrivare alla stessa conclusione, vale a dire che il comunismo è stato una débâcle. Per la separazione tra dirigenti e diretti, tra borghesi e proletari, e l’avvio di un processo per eliminare le diseguaglianze tra gli uomini (che anche uno studioso come Franco Venturi aveva creduto possibile all’inizio degli anni Trenta) è stato più una sconfitta che uno scacco.
di Giancarlo Governi
Pietro Germi è senz’altro uno dei grandissimi del cinema italiano, eppure nessuno lo cita mai come tale. Il suo era un cinema per il pubblico al quale raccontava storie che dovevano divertirlo. E divertire al cinema, diceva, significa non soltanto far ridere ma anche emozionare, commuovere, piangere ed anche mettere a nudo la realtà. I suoi tre film satirici (“Divorzio all’italiana”, “Sedotta e abbandonata”, “Signore e signori”) raccontano la storia del costume italiano in modo impietoso.
Germi era un personaggio fuori del coro e forse per questo tenuto in disparte dalla critica del tempo. Ma è stato un gigante alla faccia di chi non lo capì e di chi ancora continua ad ignorarlo o a sottovalutarlo. A Germi si rimproverava di non essere comunista, da parte di critici ortodossi, come Umberto Barbaro o Guido Aristarco. O meglio si rimproverava di non avere nei suoi film una visione “ortodossa” della classe operaia. I film dello scandalo furono “Il Ferroviere” e “Un uomo di paglia”, dove si rappresenta un operaio nelle sue debolezze umane, che lo tengono lontano dalla “lotta di classe”.
Questo scriveva Barbaro: “… a me questi operai di Germi che si comportano senza intelligenza e senza volontà, senza coscienza di classe e senza solidarietà umana – metodici e abitudinari come piccoli borghesi – la cui socialità si esaurisce in partite di caccia domenicali o davanti ai tavoli delle osterie – che non hanno né brio né slanci, sempre musoni e disappetenti, persino nelle cose dell’amore – che ora fanno i crumiri e ora inguaiano qualche brava ragazza, spingendola al suicidio – e poi piangono lagrime di coccodrillo, con le mogli e dentro chiese e sagrestie – questi operai di celluloide, che, se fossero di carne ed ossa, voterebbero per i socialdemocratici e ne approverebbero le alleanze, fino all’estrema destra, non solo sembrano caricature calunniose ma mi urtano maledettamente i nervi”.
L’ortodossia ideologica fa prendere un abbaglio a un critico acuto come Barbaro, il quale non giudica il film per quello che è ma per quello che dovrebbe essere secondo la linea del partito. E fa indignare anche altri critici comunisti, meno legati alla ortodossia, come Antonello Trombadori, direttore de “Il Contemporaneo”, il quale insieme al condirettore Carlo Salinari e allo storico Paolo Spriano, scrive nel 1956 a Palmiro Togliatti una lettera che contiene una indignata lamentela e con la quale chiedono al segretario del partito di incontrarsi con Germi per non allontanare un uomo e i “mille come lui” così importanti per il movimento antifascista : «Veniamo proprio in questi giorni dall’aver visto un film italiano assai bello e commovente, certamente popolare: “Il ferroviere”, di Germi. È un’opera di un socialdemocratico militante, eppure è un film pervaso da ogni parte di sincero spirito socialista».
La lettera non ebbe nessun seguito, perché Togliatti né altri dirigenti del partito incontrarono mai Germi e non fu neppure pubblicata. Fu fatta conoscere, nel 1990 quando Togliatti era morto da 26 anni, Germi da 16, e il partito comunista stava pure cambiando nome.
Germi, nonostante gli attacchi, sta a rappresentare il fallimento della politica dirigistica nel cinema e nella cultura messa in atto da una parte importante del partito comunista. Una politica che fallì anche con il padre del neorealismo come Vittorio De Sica, nelle cui opere i protagonisti si comportano in maniera isolata, in perfetta solitudine, lontanissimi comunque dalla classe e dal partito. Una politica che fallì anche con Federico Fellini il quale seguiva un suo mondo fantastico che prescindeva da tutto e che difendeva con ogni mezzo, rivolgendosi persino ai gesuiti e ai cardinali. Il successo mondiale fu in qualche maniera lo scudo che schermava De Sica e Fellini mentre Germi non godeva di nessuna protezione, essendo la sua fama, fino all’Oscar ottenuto con “Divorzio all’italiana”, circoscritta nell’ambito domestico. E poi Germi era socialdemocratico militante e dichiarato e quindi da emarginare.
Ma Germi, anche se soffriva molto di questi attacchi e di queste critiche ingiuste e strumentali (così mi ha riferito Mario Raimondo, un importante intellettuale, grande esperto di teatro, che in quegli anni fu nel partito socialdemocratico), in realtà seguì la sua strada, continuando a raccontare la realtà italiana usando la sua grande arte e il suo grande mestiere (non dimentichiamo che oltre ad essere regista fu anche un ottimo attore), padroneggiando i generi cinematografici più diversi, fino al momento più alto raggiunto con la trilogia satirica.
L’Italia è un paese in cui i grandi si ricordano soltanto quando ci sono gli anniversari, non mi sembra che ci siano stati grandi ricordi per Germi, i cui film continuano ad essere ignorati soprattutto fra i giovani. Non ci sono stati convegni, né rassegne televisive e neppure opere restaurate. In un Paese che sembra aver perso la memoria.